Amo fare la spesa. Ma per la prima volta ho avuto paura

Ho sempre amato fare la spesa. Quando ero piccola e il sabato mattina i miei genitori tornavano dal supermercato con la scorta di cibo per tutta la settimana era una festa correre in giardino, aiutarli a portare a casa le buste e poi mettere a posto tutti insieme quello che avevano comprato.

Mi piaceva quel momento. Forse per l’emozione di aprire il pacco delle merendine del Mulino Bianco e scoprire ogni volta una nuova sorpresa: una gomma per cancellare a forma di crostatina, un righello, delle forbici da portare a scuola. O forse perché già allora capivo che quando hai la dispensa e il frigorifero pieni vuol dire che va tutto bene.

Così, anche da grande, quello della spesa è sempre stato un rito gioioso. Amo scrivere la lista delle cose da comprare. Non ho mai considerato una perdita di tempo l’ora trascorsa al supermercato o al mercato di Campagna Amica. Mi diverte camminare tra gli scaffali e spulciare gli sconti, non mi pesano le file, adoro chiacchierare con la signora dell’azienda agricola che tesse le lodi del suo radicchio. E una volta a casa mi dà soddisfazione mettere in ordine la spesa. Ogni cosa al suo posto: i legumi nello scaffale in basso dell’armadio a muro, accanto al latte e alla marmellata, la pasta, il riso e le farine per il pane in quello sopra. Le arance nel cestino sul tavolo. Le verdure in frigorifero: il cavolfiore e la verza nel cassetto, il radicchio, la bietola, i porri, i finocchi sugli scaffali.

Fare la spesa mi piace. Sapere di avere da mangiare mi fa sentire al sicuro.

Ma stamattina è stato diverso.

Stamattina ho seriamente pensato di non andarci, a fare la spesa. Pazienza se l’unica verdura che faceva capolino dal frigorifero era una costa di sedano rinsecchita.

Io che nonostante la mia ipocondria ho sempre cercato di affrontare questa emergenza con lucidità, senza farmi prendere dal panico, ho avuto paura.

E questo nonostante tutti i negozi, dalle grandi catene ai piccoli esercizi, stiano facendo i salti mortali per proteggerci, con ingressi contingentati, distanze di sicurezza, guanti e gel disinfettanti per le mani.

Il problema non sono loro. Sono io. O meglio, è lui: questo virus subdolo che nel giro di qualche settimana ci ha stravolto la vita.

Sapevo che era tempo sprecato ma ho comunque chiamato 4 farmacie della mia città e setacciato quelle on line in cerca di una mascherina. Tutte esaurite, ovunque.

E allora niente, la spesa non la faccio. In qualche modo ci arrangeremo. Le mascherine arriveranno, mi hanno detto che mercoledì arriveranno, si tratta di resistere fino a mercoledì, ce la possiamo fare, qualcosa di surgelato c’è, il pane lo faccio da sola, ce la possiamo fare. Meglio patire la fame che rischiare di beccarsi il virus dalla signora in fila dietro di me. Sì, lo so che la signora in fila dietro di me sarà a un metro di distanza da me, ma comunque meglio non rischiare. Meglio patire la fame che beccarsi il virus. Così, come una cantilena al contrario, che invece di cullarti ti fa crescere l’agitazione.

Ma poi ho fatto appello alla mia razionalità. I medici e gli infermieri in prima linea contro il Coronavirus hanno il diritto di avere paura. I commessi che non possono scegliere se andarci o meno, al supermercato, hanno il diritto di avere paura. Non io. Io non potevo farmi stravolgere la vita ancora di più. Basta fare attenzione, rispettare le regole, e sarò al sicuro, mi sono detta. Ho compilato l’autocertificazione, ho preso due buste e sono uscita a fare la spesa.

Ho camminato da casa alla macchina in un’atmosfera spettrale. Negozi chiusi, strade deserte. Una signora era fuori col cane. Un’altra, la mascherina sul viso, le buste tra le mani, tornava dal supermercato di quartiere. Chissà se anche lei ci aveva pensato due volte prima di uscire di casa. Chissà se la mascherina l’aveva fatta sentire più forte.

Ho guidato su una strada che di solito è piena di macchine. Oggi c’eravamo solo io e un autobus. Praticamente vuoto.

Anche il parcheggio davanti al mercato di Campagna Amica era desolato. Fuori, poche persone aspettavano in fila a distanza di sicurezza l’una dall’altra. Un ragazzo distribuiva guanti di lattice. Quando è stato il mio turno me li sono infilati e sono entrata. Al banco della verdura, quello da cui mi servo sempre, la ragazza mi ha sorriso da sotto la mascherina. Un sorriso mesto, velato di imbarazzo per quella protezione che era costretta a indossare. “Non ti preoccupare – l’ho rassicurata – se ne avessi trovata una l’avrei addosso anch’io”.

Ho fatto la spesa. Quella di sempre. Forse un po’ più di sempre, che non si sa mai. I guanti mi facevano sudare le mani. Al momento di pagare, uno si è impigliato nella cerniera del portafoglio. Ci ho messo un minuto buono a tirar fuori i soldi. Maledetto Coronavirus.

Ora sono a casa con due buste della spesa colme di frutta e verdura. Una bella scorta. Metto le arance nel cestino sul tavolo. Il cavolfiore e la verza nel cassetto del frigo. Il radicchio, la bietola, i porri, i finocchi sugli scaffali. Ogni cosa al suo posto.

Mi torna in mente la me bambina. Non ho gomme per cancellare a forma di biscotto ma cerco comunque di pensare quello che avrebbe pensato lei: abbiamo da mangiare e #andràtuttobene.


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